12 Dicembre 2021
Passeggiata Venezia
Letture da: Fondamenta degli Incurabili
Se
appena mi fossi voltato, avrei visto la Stazione in tutto il suo splendore
rettangolare fatto di neon e di urbanità, avrei visto le lettere di scatola che
dicevano Venezia. Ma non lo feci, il cielo era pieno di stelle invernali, come
accade spesso in provincia. Da un momento all’altro un cane poteva abbaiare in
lontananza; oppure poteva farsi vivo un gallo. Con gli occhi chiusi contemplai
un ciuffo di alghe impigliato in uno scoglio – alghe sotto zero che si aprivano
a ventaglio contro lo scoglio umido, forse invetriato dal ghiaccio, in qualche
punto dell’universo, uno qualunque, non importava. Io ero quello scoglio, e il
palmo della mia mano sinistra era quel
ciuffo, quel ventaglio di alghe marine.
È questa la mia ambizione. Se finisco fuori strada,
è perché qui succede
continuamente, con tante strade fatte d’acqua. Da queste pagine, in altre parole,
potrà non venir fuori un racconto, una storia, bensì il fluire di un’acqua limacciosa
«nella stagione sbagliata dell’anno». A volte appare azzurra, a volte grigia o
bruna; invariabilmente è fredda e non potabile. Il motivo per cui mi ingegno a
filtrarla è che contiene tanti riflessi, tra i quali il mio.
Comunque, l’inverno è una stagione astratta: smorza i colori, anche in
Italia, e impone le leggi del freddo e delle giornate brevi. Queste circostanze
addestrano l’occhio a studiare il mondo esterno con un’intensità superiore a
quella della lampadina elettrica che la sera ti aiuta a esaminare la tua
fisionomia. Se questa stagione non ti calma necessariamente i nervi, li
subordina però ai tuoi istinti: alle basse temperature la bellezza è bellezza.
...qui l’occhio,il nostro unico organo grezzo, quello
più simile a un pesce, qui l’occhio nuota davvero: guazza, guizza, oscilla, si
tuffa, si arrotola. La sua gelatina esposta indugia con gioia atavica su tutte
le meraviglie riflesse nell’acqua, palazzi, tacchi a spillo, gondole, eccetera,
riconoscendo in sé – e in nessun altro – il grande
strumento che le ha fatte affiorare alla superficie dell’esistenza...
D’inverno,
specialmente la domenica, ti svegli in questa città tra lo scrosciare festoso delle
sue innumerevoli campane, come se dietro le tendine di tulle della tua stanza
tutta la porcellana di un gigantesco servizio da tè vibrasse su un vassoio d’argento nel cielo grigio perla.
Spalanchi la finestra, e la camera è subito
inondata da questa nebbiolina carica di rintocchi e composta in parte di ossigeno
umido, in parte di caffè e di preghiere [...] Questo ottimismo deriva dalla
nebbiolina; dalle preghiere che ne fanno parte, specialmente se è l’ora della
colazione. In giorni come
questo la città sembra davvero fatta di porcellana: come no, con tutte le sue cupole
coperte di zinco che somigliano a teiere, o a tazzine capovolte, col profilo dei
suoi campanili in bilico che tintinnano come cucchiaini abbandonati e stanno
per fondersi nel cielo.
Il pizzo verticale delle facciate veneziane è il
più bel disegno che il tempo-alias-acqua abbia lasciato sulla terraferma, in
qualsiasi parte del globo. In
più esiste indubbiamente una corrispondenza – se non un nesso esplicito – tra
la natura rettangolare delle forme di quel Pizzo – ossia degli edifici
veneziani – e l’anarchia dell’acqua, che disdegna la nozione di forma. È come se
lo spazio, consapevole – qui più che in qualsiasi altro luogo – della propria
inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l’unica proprietà che il
tempo non possiede: con la bellezza. Ed ecco perché l’acqua prende questa
risposta, la torce, la ritorce, la percuote, la sbriciola, ma alla fine la
porta pressoché intatta verso il largo, nell’Adriatico.Non stupisce che di giorno si colori di verde, come
il fango, e diventi nera come la pece di notte, quando fa concorrenza al
firmamento. È un miracolo che, dopo essere stata accarezzata e strapazzata per
oltre un millennio, non abbia falle, sia ancora H2O – ma è meglio non berla –,
riesca ancora ad alzarsi. Fa pensare davvero alla carta da musica, ai fogli di
una musica eseguita in continuazione: le partiture si avvicendano come ondate
di marea, le barre del pentagramma sono i canali con gli innumerevoli «legati»
dei ponti, delle lunghe finestre o dei
curvi fastigi delle chiese di Codussi, per non parlare dei violini che hanno
prestato il manico alle gondole. Sì, tutta la città somiglia a un’immensa orchestra,
specialmente di notte, con i leggii appena illuminati dei palazzi, con un coro
instancabile di onde, col falsetto di una stella nel cielo invernale. La musica,
s’intende, è ancora più grande dell’orchestra; e non c’è mano che possa voltare
il foglio.
Le chiese, ho sempre pensato, dovrebbero restare
aperte tutta la notte; o almeno dovrebbe quella della Madonna dell’Orto – non
tanto in ricordo dell’ora probabile dell’estremo tormento dell’anima quanto per
la meravigliosa Madonna col Bambino che vi è custodita. Avrei voluto sbarcare
lì e dare un’occhiata al meraviglioso dipinto del Bellini, ai tre centimetri
che separano il palmo sinistro della Madonna dal piede del Bambino. Quei tre
centimetri – ah, molto meno! – sono la distanza che divide l’amore
dall’erotismo. O forse lì è la punta estrema dell’erotismo. Ma la porta era chiusa,
e noi proseguimmo in quella galleria di grotte, in quella miniera piranesiana,
abbandonata, piatta, rischiarata dalla luna, con quel rado baluginare di
minerale elettrico, fino al cuore della città. Ripeto: acqua è uguale a tempo, e l’acqua offre
alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d’acqua, serviamo la bellezza
allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo,
abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’universo. Perché la
città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la
dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti
verso il futuro mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una
regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane
sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all’uomo.
Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch’esso è più
grande di chi ama
Voltai verso piazza San Marco sperando che il
Florian fosse ancora aperto. Stava chiudendo; il personale era occupato a
togliere le sedie dal portico e ad applicare le tavole di legno alle vetrine.
Una breve trattativa col cameriere, che si
era già cambiato per andare a casa ma che conoscevo di vista, ebbe il risultato
voluto, e con quel risultato in mano uscii da sotto il portico e passai in
rassegna le quattrocento finestre della piazza. C’era un deserto assoluto, non
un’anima. Le finestre ad arco correvano nel solito ordine ossessionante, come
onde idealizzate.