16 dicembre 2021

14_ FONDAMENTA DEGLI INCURABILI : VENEZIA

 12 Dicembre 2021

Passeggiata Venezia 
 Letture da: Fondamenta degli Incurabili 

Se appena mi fossi voltato, avrei visto la Stazione in tutto il suo splendore rettangolare fatto di neon e di urbanità, avrei visto le lettere di scatola che dicevano Venezia. Ma non lo feci, il cielo era pieno di stelle invernali, come accade spesso in provincia. Da un momento all’altro un cane poteva abbaiare in lontananza; oppure poteva farsi vivo un gallo. Con gli occhi chiusi contemplai un ciuffo di alghe impigliato in uno scoglio – alghe sotto zero che si aprivano a ventaglio contro lo scoglio umido, forse invetriato dal ghiaccio, in qualche punto dell’universo, uno qualunque, non importava. Io ero quello scoglio, e il palmo della  mia mano sinistra era quel ciuffo, quel ventaglio di alghe marine.


È questa la mia ambizione. Se finisco fuori strada, è perché qui succede continuamente, con tante strade fatte d’acqua. Da queste pagine, in altre parole, potrà non venir fuori un racconto, una storia, bensì il fluire di un’acqua limacciosa «nella stagione sbagliata dell’anno». A volte appare azzurra, a volte grigia o bruna; invariabilmente è fredda e non potabile. Il motivo per cui mi ingegno a filtrarla è che contiene tanti riflessi, tra i quali il mio.



Comunque, l’inverno è  una stagione astratta: smorza i colori, anche in Italia, e impone le leggi del freddo e delle giornate brevi. Queste circostanze addestrano l’occhio a studiare il mondo esterno con un’intensità superiore a quella della lampadina elettrica che la sera ti aiuta a esaminare la tua fisionomia. Se questa stagione non ti calma necessariamente i nervi, li subordina però ai tuoi istinti: alle basse temperature la bellezza è bellezza.


...qui l’occhio,il nostro unico organo grezzo, quello più simile a un pesce, qui l’occhio nuota davvero: guazza, guizza, oscilla, si tuffa, si arrotola. La sua gelatina esposta indugia con gioia atavica su tutte le meraviglie riflesse nell’acqua, palazzi, tacchi a spillo, gondole, eccetera, riconoscendo in sé – e in nessun altro – il grande strumento che le ha fatte affiorare alla superficie dell’esistenza...



D’inverno, specialmente la domenica, ti svegli in questa città tra lo scrosciare festoso delle sue innumerevoli campane, come se dietro le tendine di tulle della tua stanza tutta la porcellana di un gigantesco servizio da tè vibrasse su un vassoio d’argento nel cielo grigio perla. Spalanchi la finestra, e la camera è  subito inondata da questa nebbiolina carica di rintocchi e composta in parte di ossigeno umido, in parte di caffè e di preghiere [...] Questo ottimismo deriva dalla nebbiolina; dalle preghiere che ne fanno parte, specialmente se è l’ora della colazione. In giorni come questo la città sembra davvero fatta di porcellana: come no, con tutte le sue cupole coperte di zinco che somigliano a teiere, o a tazzine capovolte, col profilo dei suoi campanili in bilico che tintinnano come cucchiaini abbandonati e stanno per fondersi nel cielo.

Il pizzo verticale delle facciate veneziane è il più bel disegno che il tempo-alias-acqua abbia lasciato sulla terraferma, in qualsiasi parte del globo.  In più esiste indubbiamente una corrispondenza – se non un nesso esplicito – tra la natura rettangolare delle forme di quel Pizzo – ossia degli edifici veneziani – e l’anarchia dell’acqua, che disdegna la nozione di forma. È come se lo spazio, consapevole – qui più che in qualsiasi altro luogo – della propria inferiorità rispetto al tempo, gli rispondesse con l’unica proprietà che il tempo non possiede: con la bellezza. Ed ecco perché l’acqua prende questa risposta, la torce, la ritorce, la percuote, la sbriciola, ma alla fine la porta pressoché intatta verso il largo, nell’Adriatico.

Non stupisce che di giorno si colori di verde, come il fango, e diventi nera come la pece di notte, quando fa concorrenza al firmamento. È un miracolo che, dopo essere stata accarezzata e strapazzata per oltre un millennio, non abbia falle, sia ancora H2O – ma è meglio non berla –, riesca ancora ad alzarsi. Fa pensare davvero alla carta da musica, ai fogli di una musica eseguita in continuazione: le partiture si avvicendano come ondate di marea, le barre del pentagramma sono i canali con gli innumerevoli «legati» dei ponti, delle lunghe finestre o dei curvi fastigi delle chiese di Codussi, per non parlare dei violini che hanno prestato il manico alle gondole. Sì, tutta la città somiglia a un’immensa orchestra, specialmente di notte, con i leggii appena illuminati dei palazzi, con un coro instancabile di onde, col falsetto di una stella nel cielo invernale. La musica, s’intende, è ancora più grande dell’orchestra; e non c’è mano che possa voltare il foglio.

 

Le chiese, ho sempre pensato, dovrebbero restare aperte tutta la notte; o almeno dovrebbe quella della Madonna dell’Orto – non tanto in ricordo dell’ora probabile dell’estremo tormento dell’anima quanto per la meravigliosa Madonna col Bambino che vi è custodita. Avrei voluto sbarcare lì e dare un’occhiata al meraviglioso dipinto del Bellini, ai tre centimetri che separano il palmo sinistro della Madonna dal piede del Bambino. Quei tre centimetri – ah, molto meno! – sono la distanza che divide l’amore dall’erotismo. O forse lì è la punta estrema dell’erotismo. Ma la porta era chiusa, e noi proseguimmo in quella galleria di grotte, in quella miniera piranesiana, abbandonata, piatta, rischiarata dalla luna, con quel rado baluginare di minerale elettrico, fino al cuore della città.

Ripeto: acqua è uguale a tempo, e l’acqua offre alla bellezza il suo doppio. Noi, fatti in parte d’acqua, serviamo la bellezza allo stesso modo. Toccando l’acqua, questa città migliora l’aspetto del tempo, abbellisce il futuro. Ecco la funzione di questa città nell’universo. Perché la città è statica mentre noi siamo in movimento. La lacrima ne è la dimostrazione. Perché noi andiamo e la bellezza resta. Perché noi siamo diretti verso il futuro mentre la bellezza è l’eterno presente. La lacrima è una regressione, un omaggio del futuro al passato. Ovvero è ciò che rimane sottraendo qualcosa di superiore a qualcosa di inferiore: la bellezza all’uomo. Lo stesso vale per l’amore, perché anche l’amore è superiore, anch’esso è più grande di chi ama

 Voltai verso piazza San Marco sperando che il Florian fosse ancora aperto. Stava chiudendo; il personale era occupato a togliere le sedie dal portico e ad applicare le tavole di legno alle vetrine. Una breve trattativa col cameriere, che si era già cambiato per andare a casa ma che conoscevo di vista, ebbe il risultato voluto, e con quel risultato in mano uscii da sotto il portico e passai in rassegna le quattrocento finestre della piazza. C’era un deserto assoluto, non un’anima. Le finestre ad arco correvano nel solito ordine ossessionante, come onde idealizzate.