28 luglio 2017

7. PASSEGGIATA ORESTE SABADIN - CASA CON L'ARCO

Casa
Casetta casina casettina casettona
Casotta casa rotta o casa rossa
Casella
Casaccia
Vado a caccia di casa
Ne adocchio una carina
Senza soffitto, senza cucina
Così a naso fa proprio al mio caso
E' fatta di pietra
Pietro si chiama il tipo che vende
Verde il prato si stende davanti
Tanti i fiori, forme e colori d'estate
Casa dolce casa mia per piccina che tu sia
In via dei sassi numero trenta nove
Se piove il tetto tiene
Viene l'inverno all'interno al caldo sto
Sto all'ombra dei rami in primavera
A leggere un libro
Una storia vera dove scorrono gli anni
Chi parla è una casa
Racconta se stessa nel tempo che passa


Epilogo Uscite 2017
Passeggiata alla casa con l'Arco di Oreste Sabadin (Itinerario 7)
Letture da: Italo Calvino, Le città invisibili

Casa del tempo, di Roberto Piumini, Roberto Innocenti



Memorie di Adriano di Marguerite Yourcenar (letto da Elisa Breda)

19 luglio 2017

6. PASSEGGIATA BUZZATI VAL MOREL

Il colonnello restò seduto ad aspettare  il nuovo giorno, e per la prima volta nella sua vita conobbe i rumori della foresta. Quella notte ce n'erano quindici. il Procolo li contò ad uno ad uno.
1) Di tanto in tanto, vaghi boati fondi, che parevano uscire di sottoterra, quasi si preparasse un terremoto.
2) Stormire di foglie
3) Cigolìo di rami piegati dal vento
4) Fruscìo di foglie secche sul suolo
5) Rumore di rami secchi, foglie e pigne che cadevano a terra
6) Una voce remotissima di acque correnti.
7) Rumore di un uccello grande levantesi ogni tanto a volo con alto frastuoni di ali (forse un gallo cedrone
8) Rumori di mammiferi (scoiattoli o faine o volpi o lepri) che attraversavano la foresta
9) Ticchettìo di insetti che urtavano o camminavano sui tronchi
10) A lunghi intervalli, il ronzìo di una grossa zanzara
11) Il fruscio presumibilmente di una biscia notturna
12) Il grido di una civetta
13) Il dolce canto dei grilli
14) Urla e lamenti lontani di un animale sconosciuto forse assalito da gufi o lupi
15) Squittii del tutto misteriosi
Ma due o tre volte quella notte ci fu anche il vero silenzio degli antichi boschi, non comparabile con nessun altro al mondo e che pochissimi uomini hanno udito

 15 luglio 2017 
Passeggiata sui luoghi di Dino Buzzati (Itinerario 6)

 Letture da: Il segreto del bosco vecchio (1979)

 

«Al principio di questo secolo, nella Valle di Fondo, il vento Matteo era molto conosciuto. Ambiziosissimo, preferiva signoreggiare nella piccola valle, piuttosto che girovagare per le grandi pianure e gli oceani...acquistava gagliardia speciale due ore prima dell'imbrunire e in genere toccava il massimo della forza nei periodi di luna crescente.
[...] Nelle notti di bonaccia Matteo scopriva un'altra sua grandissima qualità, si rivelava musicista sommo. Soffiando in mezzo ai boschi, qua più forte, là più adagio, il vento si divertiva a suonare; allora si udivano venir fuori dalla foresta lunghe canzoni, simili alquanto ad inni sacri. Quelle sere, dopo la tempesta, la gente usciva dal paese e si riuniva al limite del bosco, ad ascoltare per ore e ore, sotto il cielo limpido, la voce di Matteo, che cantava». 




«Vagano, sovente, per le vallate deserte, desideri funesti, di origine sconosciuta. Essi prosperano nella solitudine, infiltrandosi nel fondo del cuore: per esserne infestati basta solo talora aver contemplato a lungo le foreste giorni di tramontana, o aver visto nuvole a forma di cono, o esser passati per certi sentieri obliquanti verso nord ovest».






7 maggio 2017

4. PASSEGGIATA ZANZOTTO: ARQUÀ PETRARCA - PIANORO MOTTOLONE

«Muoversi, formicolare, stare negli Euganei e glissare di là in tutte le direzioni del cosmo, cogliere i possibili della tortuosità di una o dieci stradine su dieci diversi orizzonti e assaggiare la sana festosità e la pacatezza dei tanti olivi e dei tanti olii sufficienti ad alimentare per sempre lucerne interiori e fluidità di fantasie. E presto ci si trova invischiati dolcemente e acremente in successivi paradisi, accordati col corpo geologico e coi 30-35 milioni di anni che gli inarcano le spalle, col gregge indisciplinato dei colli-monti che finiscono per modularsi in labirinto» (da: Luoghi e Paesaggi, 1997)

 6 Maggio 2017 
Passeggiata sui luoghi di Andrea Zanzotto (Itinerario 4)

 Letture da: Luoghi e Paesaggi di Andrea Zanzotto (2013)



Da IX Ecloghe, 1962 
Notificazione di presenza sui Colli Euganei 

Se la fede, la calma d’uno sguardo
come un nimbo, se spazi di serene
ore domando, mentre qui m’attardo
sul crinale che i passi miei sostiene,
se deprecando vado le catene
e il sortilegio annoso e il filtro e il dardo
onde per entro le più occulte vene
in opposti tormenti agghiaccio et ardo,
i vostri intimi fuochi e l’acque folli
di fervori e di geli avviso, o colli
in sì gran parte specchi a me conformi.
Ah, domata qual voi l’agra natura,
pari alla vostra il ciel mi dia ventura
e in armonie pur io possa compormi.

Da Luoghi e paesaggi (1997)
«Un giorno di grigia primavera ci si aggirava in auto lentamente entro la ressa delle figure tutte, pur se vagamente coniche, tondeggianti, quando ad una svolta ci si pararono davanti tre coni geometricamente perfetti, protesi, impeccabilmente appuntiti, di un colore lavico-cinereo da lasciarci di sale. Apparivano, "erano", quei coni, sicuri di una loro nobiltà garantita dai milioni di anni, noncuranti eppure alquanto subdoli, da figli dell'impossibile. "Ecco la Trimurti Euganea!": In Marco e in me si era annunciata simultaneamente questa folgorata, secca sorgente del divino, presente da sempre eppure solo in quel momento manifesta.  
Oreste Sabadin alla lettura 
Rimasti a lungo in contemplazione e vorrei dire in preghiera, decidemmo di ritornare con più calma e prestissimo sul luogo. Buttai giù uno schizzo approssimativo che rincorreva invano l'esattezza ripida e severa, la superbia sottile e capricciosa di quelle  entità. Ritornammo tante volte e non le rincontrammo più. Pareva che... ma no... si affacciavano somiglianze parziali, graffi di delusioni. Non restava che sperare in un altro tic degli dei. In realtà questi sono fenomeni che si formano continuamente in qualunque sito, specie tra i monti: vi interferiscono di continuo ore, luci, stagioni, minuzie che ci fanno desolatamente sentire come nulla vi sia di stabile, come tutto cambi anche se immoto, perché tutto è proiettato all'irraggiungibile in sé. E così avviene a maggior ragione per l'animo umano, i volti umani anche i più amati; tutti sono i soliti uno-nessuno-centomila, tutto era e sarà paesaggi diffratti e ricomposti a colpi d'ala o soffi più o meno ludici, più o meno carezzevoli o maligni. E Yves Bonnefoy torna a dirci che "i luoghi, come gli dei, sono i nostri sogni"».

Pianoro del Mottolone

Francesco Petrarca
da: Canzoniere (Rerum vulgarium fragmenta

Solo et pensoso i piú deserti campi 
vo mesurando a passi tardi et lenti, 
et gli occhi porto per fuggire intenti 
ove vestigio human l’arena stampi. 
Altro schermo non trovo che mi scampi 
dal manifesto accorger de le genti, 
perché negli atti d’alegrezza spenti 
di fuor si legge com’io dentro avampi: 
sì ch’io mi credo omai che monti et piagge 
et fiumi et selve sappian di che tempre 
sia la mia vita, ch’è celata altrui. 
Ma pur sí aspre vie né sì selvagge 
cercar non so ch’Amor non venga sempre 
ragionando con meco, et io co’llui.


Giardino di casa Petrarca

Andrea Zanzotto 
 Da: Dietro il paesaggio 

Nel mio paese 

 Leggeri ormai sono i sogni,
da tutti amato
 con essi io sto nel mio paese,
mi sento goloso di zucchero;
al di là della piazza e della salvia rossa si ripara la pioggia
si sciolgono i rumori
ed il ridevole cordoglio
per cui temesti con tanta fantasia
questo errore del giorno
Campi di Rosmarino
e il suo nero d'innocuo serpente
 Del mio ritorno scintillano i vetri
ed i pomi di casa mia,
le colline sono per prime
al traguardo madido dei cieli,
tutta l'acqua d'oro è nel secchio
tutta la sabbia nel cortile
e fanno rime con le colline
 Di porta in porta si grida all'amore
nella dolce devastazione
 e il sole limpido sta chino
su un'altra pagina del vento.


Marotei, de matina bonora 

Grune de fen
che i par bar
color de fer
qua e là
pa’ i pra
Il Borgo di Arquà Petrarca
rasadi de rossada
stech e fii
de erbete
ingattiade strigade
deventade storte
deventade morte
deventade sgonfie
deventade stonfe
deventade deventade deventade


Da Idioma
Onde éla la Urora e i buzholà
e le caròbole e i sòrboi che la ghe vendéa
ai cèi par diese schei: che marcà
al festa, drio vespro, che i ghe féa!
Su'l fornelet sora'l balcon podà
intant la so zheneta la bojèa:
ma i tosatea un dì drento inte'l brodo
un zochet de morer i ghe 'vea mes
e ela col piron catando dur co l inpiréa:
"A che temp, la diséa, che son tiradi ades"                                  
                                                                                                   Foto di Rosa Anna Caprioli

22 aprile 2017

3. PASSEGGIATA PARISE: DA PONTE DI PIAVE A SALGAREDA

«Riflettevo: alla sublime bellezza di Capri, all’emozionante vita a New York, alla dolce Parigi, alla bellezza del Mediterraneo con il suo mare e coste su cui scorre la voce delle sirene e mi chiedevo, non senza turbamento: che cosa mi inchiodava sempre più spesso a quell’albero di more, a quelle nebbie, al fiume Piave, alle montagne vicine?»


Seconda uscita - 22 Aprile 2017

Passeggiata sui luoghi di Goffredo Parise e Lorenzo Capellini (Itinerario 3)

Letture da Veneto barbaro di muschi e di nebbie di Goffredo Parise (2009)


«A pochi metri, su un altro salice picchia il picchio, con quel movimento del becco come la piccozza del minatore o dello scalatore di vette. Le rane cantano dentro piccoli stagni e ruscelli che si gettano nel Piave, le lepri, all'alba giocano all'amore in coppie, in piedi, una rivolta verso l'altra come danzando, un alveare naturale si è formato tra i due vetri di una finestrella e da un giorno all'altro, un grosso gufo è sceso dal camino in una frana di fuliggine odorosa, le lucciole girano e il sapore del mare quando è scirocco giunge ad avvertire che la partenza, se voglio, può essere imminente oppure no, a seconda dell'estro».


«Vorrei una casa con qualche rumore di gocce di pioggia, qualche difetto legato alle intemperie, una donna o una moglie vagamente elastica nella carne, come un palloncino, magari, chissà, anche un figlio, meglio figlia. Che ci fosse carenza di ombrelli nella casetta, e fosse qualche volta un po’ fredda d’inverno (ma da poter rimediare). Che potesse dare un senso di regressione, come dicono oggi, di memoria e di ricordo, come si diceva ieri. Che si lavasse biancheria in questa casa, e si stirasse e si udissero voci e anche proteste (passeggere però). Dove si potesse respirare però il senso del tempo, sia atmosferico, sia psichico. E così, ma senza troppe scosse, diventare vecchi e morire in una giornata di vento, au plus tard!».

12 marzo 2017

2. USCITA IN SOLITARIA. GIRO AD ANELLO RIFUGIO SENNES

 Uscita in solitaria - 11-12 marzo 2017
Località Sant'Uberto (Cortina d'Ampezzo), Malga Ra Stua, 
Rifugio Sennes, Rifugio Fodara Vedla e ritorno (Itinerario 2)


Dopo aver conosciuto Lorenza Stroppa, editrice e curatrice della "Piccola filosofia di Viaggio"  di Edicilo Editore, ospite in Libreria Morelli 1867  Venerdì 10 Marzo, ho infilato il libro appena acquistato e l'ho fatto uscire dalla Libreria per sentire il sole e il blu della montagna.


Letture da: L'incanto del Rifugio di Enrico Camanni (2015)"Che cosa ci aspetta? Domani si vedrà. Sono le solite domande che precedono l'ascensione. I Rifugi e i bivacchi ne sono pieni, rimbombano di quelle divinazioni. Preghiere per chi ha fede e scongiuri per chi non ne ha. Nei rifugi degli alpinisti ci si addormenta ogni sera con l'ombra del dubbio, confidando che l'alba provvederà a sciogliere il sonno e l'incertezza. La notte è un passaggio obbligato che separa le timidezze della vigilia dalla smania del nuovo giorno"


"L'arrivo ad un rifugio di alta montagna" osserva Guido Rey, "è una delle più dolci emozioni della vita alpina; la vista delle esili pareti, del fragile tetto in mezzo alla durezza delle rupi, ispira un senso di infinito di sicurezza e di pace; s'acqueta l'ansia della salita, ed è sospesa l'inquietudine per il giorno avvenire: il nostro cuore si apre alla tenerezza come quando, dopo un lungo viaggio, poniamo il piede sulla soglia sicura della nostra casa, e l'animo si colma di gratitudine per chi ha costruito l'ospizio"

"C'è un momento perfetto nella liturgia del rifugio: quando si ritorna dall'ascensione. Posate le armi si gettano via gli scarponi, si rimboccano le maniche e si siede scompostamente sulla panca a ricevere i complimenti del sole, con un boccale di birra nella mano e il vuoto dentro la pancia. Senza più pensare, senza più desiderare, senza più dover dimostrare".

"In contrade mai viste - si racconta - Alpi immortali guardano dall'alto, sfiorando col berretto i firmamenti, coi sandali sfiorando la città" 
E. Dickinson




Nota dell'escursionista: Date vita ai libri!




21 febbraio 2017

1. GIRO AD ANELLO RIFUGIO ANTELAO

I Monti Pallidi sono definiti così per il loro colore dovuto alla conformazione rocciosa della dolomia costituita da carbonato doppio di calcio e magnesio. A noi piace pensare però che siano i nani che nelle notti di luna piena filano raggi candidi e avvolgono le montagne di un'incantevole luce. 


19 febbraio 2017. Giro ad anello Rifugio Antelao (itineraio 1)
Letture da Fabro. Melodia dei monti pallidi di Francesco Vidotto (2016)


«Gioacchino era un uomo buono e, per questo, pieno di debiti. Faceva il maniscalco e lavorava il ferro. Aveva una piccola bottega in paese e non riusciva a dire mai di no per cui, quando gli capitava un cliente senza una lira bucata ma con un mulo zoppo, lui lo ferrava meglio di un purosangue, si grattava con gusto in mezzo alla testa, come a scombinare i pensieri e saldava il tutto con una stretta di mano. Ad ogni buon conto quel giorno, alle quattro suonate e con in corpo più vino che sangue, si ricordò che il Comune chiudeva. Uscì dall'osteria, abbracciò tutti quanti e barcollò lungo la strada fino di fronte al grande edificio bianco, proprio in piazza. Entrò, salì incerto le due rampe di scale e bussò a una porta di legno. 
"Buongiorno Gioacchino" lo salutò l'impiegato che lo conosceva benone.
"Buongiorno" farfugliò papà. 
"La sai la novità?" 
"A dirla tutta no." 
"E allora te la dico io...sono padre!" 
"Rosetta ha partorito? Che bella notizia." 
 "Già e vorrei registrare mio figlio." 
"Ne sono felice" si complimentò l'impiegato mentre apriva un grande registro con la copertina di cuoio scuro. Lo sfogliò fino alla prima pagina libera, ci scrisse la data, annotò il nome e il cognome di Gioacchino e il nome e il cognome di Rosetta e infine guardò l'amico che se ne stava in equilibrio precario sorridendo e attese. Gioacchino non disse nulla. Nemmeno lo guardava. Dio solo sa quali pensieri avesse per la testa. Trascorsero così forse due minuti. 
"Allora?" 
"Allora cosa?" 
"Allora come si chiama. Devo registrare il nome del bambino".
Gioacchino rimase di sasso. "Il nome del bambino" pensò, "il nome di mio figlio, certo" Ma nessun nome gli sovvenne. Stava per dire che non lo sapeva. Che sarebbe corso a casa a domandare e ritornato subito con la risposta, ma che figura ci avrebbe fatto? Un padre che non conosce il nome del figlio. Era cosa che poteva accadere, certo. Ma non a lui. Così, fermo in quell'ufficio, con i piedi ficcati in un paio di scarponi troppo adoperati, Gioacchino cercò di fare una cosa che non gli era mai riuscita: immaginare. Provò a pensare ad un nome. Uno qualsiasi purché fosse bello. Un nome da uomo. Un nome forte, deciso e facile da ricordare. Si sforzò di pensare a queste cose ma non accadde niente.
"Gioacchino, qual è il nome di tuo figlio?" insistette l'impiegato comunale. 
"Si chiama..."balbettò lui "mio figlio si chiama..." ripeté per prendere tempo mentre una confusione di lettere turbinava nella sua mente. Poi, d'improvviso, un'immagine venne a galla dal buio: era l'insegna della bottega. C'era scritta una parola soltanto, color rosso scuro su di una parete a calce. Quella parola era: FABBRO. Gioacchino, in quell'ufficio comunale, si fece chiaro come il sole a primavera. "Si chiama Fabro" concluse. 
"Come il mestiere?" domandò l'impiegato stranito. 
"Sì" rispose mio padre, "come il mestiere, ma con una b soltanto" anche se di lettere poteva capirne quanto un cacciatore di ortaggi».
(p. 17)

C'era un armadio chiuso sulla destra con accanto un inginocchiatoio e in fondo, proprio a ridosso della parete, la tastiera nera e bianca di un pianoforte. Se ne stava l' ordinata e in silenzio con di fronte un uomo. Gli vedevo le spalle e i piedi, ficcati nel legno dello strumento sopra due grandi pedali di velluto rosso. Sedeva composto con le braccia ripiegate all'altezza dei gomiti. Sopra di lui una grande finestra in vetro e piombo lasciava trasparire il cielo, i boschi e la roccia verticale. Quel tale era intento a leggere uno spartito. Si chinava in avanti come non ci vedesse per niente piazzando il naso a un palmo dalla carta, poi si rimetteva composto con la schiena diritta e sospirava. Sporgeva le mani sui tasti ma subito dopo ritornava alle note scritte. Finalmente, dopo qualche maldestro tentativo, si decise. Mosse i piedi per primi. Uno dopo l'altro. Su e giù, su e giù. Sembrava che lo strumento avesse polmoni propri. In spirava ed espirava a fatica. Pareva antico di mille anni. Misi a fuoco le cime al di là del vetro e, per un attimo, quell'aria mi parve il respiro del bosco. Somigliava al vento quando accarezza i rami. Me ne innamorai. Rimasi imbambolato fino a quando il ragazzo suonò le prime note. Una melodia sacra, simile a quella che si ascolta alla messa, venne a galla timida. Ballava nell'aria. Tremava. Quella musica sola aveva una voce tutta differente da come ero abituato a sentirla la domenica. Usciva dalla stanza e s'arrampicava sulle pareti di pietra e saliva alta fino agli affreschi del soffitto. Non c'era angolo che non ne fosse pervaso ed entrava anche dentro di me. Vibravo con lei. L'ascoltavo con gli occhi, con il naso, con i capelli e con il pensiero. Ciascuna nota era un brivido. Smisi di spiare il musicista e rimasi solamente seduto per terra con lo sguardo perduto tra i dipinti che d'incanto avevano un senso e ballavano immobili quella melodia. Mi parve di ascoltare qualcosa che era scritto da sempre e che mai avrei saputo spiegare. Riconoscevo i suoni uno per uno. Avrei quasi potuto chiamarli per nome. Intuivo i fraseggi, li anticipavo, e li mimavo con lo sguardo. Seduto su quel pavimento freddo, riconobbi la voce della montagna che da sempre mi parlava». 
(p. 59)

Ci incamminammo che il sole doveva ancora sorgere. Non c’era luna ma solo il cielo terso di stelle. A guardare in su vedevo la cima dell’Antelao ormai bianca che si disegnava nel cielo e più sopra solamente il buio. Il freddo si infilava dentro i pantaloni di stoffa leggera e saliva fin allo stomaco e i denti battevano che li sentiva il Zoc. “Hai freddo.” “No.” E non dicemmo altro per tutto il viaggio. Qualche tempo dopo il sole fece capolino dietro il Montanel. Il nero all’orizzonte divenne azzuro, le stelle sfumarono e i primi raggi superarono le cime e inondarono la vallata del Cadore di luce dorata e l’Antelao e Picco di Roda si fecero rosa e bianchi di neve. Io guardavo quel miracolo a cui non mi abituavo mai. In montagna, per quel che succede, c’è la bellezza che ti tiene su. Alla fine il sole si alzò e senii il suo calore sulla schiena e smisi di tremare. Proprio allora entrammo nell’ombra del bosco e il ghiaccio tornò. Percorremmo di buon passo un sentiero che prima ci condusse sopra Valle di Cadore e poi diritto a Cibiana costeggiando le vecchie miniere del ferro. Mentre menavo le gambe veloci dietro al passo svelto del Zoc guardavo queste voragini aprirsi nel muschio e scendere giù nel centro della terra. 
 (p. 65)