«E
se per loro c'erano i confini a che cosa servivano se con gli aeroplani
potevano passarci sopra? e se non c'erano confini in aria perché dovevano
esserci sulla terra? E in questo "per loro" intendeva tutti quelli
che i confini ritenevano cosa concreta o sacra; ma per lui e per quelli come
lui, e non erano poi tanto pochi come potrebbe sembrare ma la maggioranza degli
uomini, i confini non erano mai esistiti se non come guardie da pagare o
gendarmi da evitare. Insomma se l'aria era libera e l'acqua era libera doveva
essere libera anche la terra».
4 giugno 2017
Passeggiata sui luoghi di Mario Rigoni Stern (Itinerario 5)
Letture da: Storia di Tönle (1978)
«Dal margine del bosco, guardingo come un animale selvatico che
aspetta l'imbrunire per uscire allo scoperto, guardava la sua contrada, e il
paese laggiù, dentro lo slargo dei prati.
Il fumo odoroso della legna si scioglieva nel cielo rosa e violetto dove
le cornacchie volavano a gruppi, chiamandosi.
La sua casa aveva
un albero sul tetto: un ciliegio selvaggio. Il nocciolo dal quale era nato
l'aveva posato lassù un tordo sassello tanti anni prima espellendolo in volo e
l'umore di una primavera l'aveva fatto germogliare perché un suo avo, per
difendere l'abitazione dalla pioggia e dalle nevi, aveva steso sopra la
copertura altra paglia, sicché quella sotto era diventata humus e quasi zolla.
Così il ciliegio era cresciuto.
Tönle Bintarn, guardando, ricordava
che da ragazzo, dopo la mietitura della segale, si arrampicava dalla parte
della stalla dove il grande tetto quasi si unisce al declivio del monte e a una
a una piluccava tutte le piccole ciliegie dolcissime e nere prima che i merli e
i tordi venissero a metterci il becco:
erano come il miele e per giorni la tintura del
loro succo gli restava sulle mani e attorno alla bocca, e l'acqua del
Prunnele non riusciva a toglierla. Ma d'autunno il rosso pastello delle foglie
si notava anche dalla cima del Moor, come un'orifiamma che ingentiliva e
distingueva tra le altre la povera casa»
«Fu così che un suo lontano parente gli procurò un lavoro come
giardiniere nel castello di hradcany, nella Malà Strana. Avrebbe potuto
starsene lì a tempo pieno ... ma quando sui giardini e sui tetti di Praga scese
la prima neve sentì impellente il bisogno di ritornare a casa. Non per niente
nel nostro antico linguaggio Bintarn equivale a invernatore. E una grande nostalgia lo colse; la nostalgia di quel
magro ciliegio selvatico sopra il tetto e di quello che era raccolto sotto i
quattro spioventi di paglia: come c'erano delle forze che lo spingevano ad
andare in primavera, così c'erano quelle che lo facevano ritornare alla fine
dell'autunno: forze superiori a ogni volontà come l'avvicendarsi delle
stagioni, le migrazioni degli uccelli, il sorgere ed il calare del sole, le
fasi della luna».
«Quella del 1915 fu dalle nostre parti una primavera molto bella, la
neve, con le piogge di marzo, si era sciolta molto in fretta, e pareva proprio
che più di ogni altro anno passato la chiamata della primavera con suoni dei
campani e i falò sullo Spilleche e sul Moor avesse svegliato in anticipo la
vegetazione. Appena la neve se ne fu
andata per i mille ruscelli, tutti i prati si vestirono di bianchi crochi
subito visitati dalle api, e a metà aprile i larici avevano fiorito con il
canto dell'urogallo: ai primi di maggio misero la veste anche i faggi: un bel
verde lucente che spiccava sul nero degli abeti; il ciliegio sul tetto era come
un vezzo sui capelli di una fanciulla, o una nuvola fiorita: i petali si
staccavano dai rami ancora nudi come leggere farfalle e si posavano dondolando
sulla paglia che pur essa sembrava rinverdire».