21 febbraio 2017

1. GIRO AD ANELLO RIFUGIO ANTELAO

I Monti Pallidi sono definiti così per il loro colore dovuto alla conformazione rocciosa della dolomia costituita da carbonato doppio di calcio e magnesio. A noi piace pensare però che siano i nani che nelle notti di luna piena filano raggi candidi e avvolgono le montagne di un'incantevole luce. 


19 febbraio 2017. Giro ad anello Rifugio Antelao (itineraio 1)
Letture da Fabro. Melodia dei monti pallidi di Francesco Vidotto (2016)


«Gioacchino era un uomo buono e, per questo, pieno di debiti. Faceva il maniscalco e lavorava il ferro. Aveva una piccola bottega in paese e non riusciva a dire mai di no per cui, quando gli capitava un cliente senza una lira bucata ma con un mulo zoppo, lui lo ferrava meglio di un purosangue, si grattava con gusto in mezzo alla testa, come a scombinare i pensieri e saldava il tutto con una stretta di mano. Ad ogni buon conto quel giorno, alle quattro suonate e con in corpo più vino che sangue, si ricordò che il Comune chiudeva. Uscì dall'osteria, abbracciò tutti quanti e barcollò lungo la strada fino di fronte al grande edificio bianco, proprio in piazza. Entrò, salì incerto le due rampe di scale e bussò a una porta di legno. 
"Buongiorno Gioacchino" lo salutò l'impiegato che lo conosceva benone.
"Buongiorno" farfugliò papà. 
"La sai la novità?" 
"A dirla tutta no." 
"E allora te la dico io...sono padre!" 
"Rosetta ha partorito? Che bella notizia." 
 "Già e vorrei registrare mio figlio." 
"Ne sono felice" si complimentò l'impiegato mentre apriva un grande registro con la copertina di cuoio scuro. Lo sfogliò fino alla prima pagina libera, ci scrisse la data, annotò il nome e il cognome di Gioacchino e il nome e il cognome di Rosetta e infine guardò l'amico che se ne stava in equilibrio precario sorridendo e attese. Gioacchino non disse nulla. Nemmeno lo guardava. Dio solo sa quali pensieri avesse per la testa. Trascorsero così forse due minuti. 
"Allora?" 
"Allora cosa?" 
"Allora come si chiama. Devo registrare il nome del bambino".
Gioacchino rimase di sasso. "Il nome del bambino" pensò, "il nome di mio figlio, certo" Ma nessun nome gli sovvenne. Stava per dire che non lo sapeva. Che sarebbe corso a casa a domandare e ritornato subito con la risposta, ma che figura ci avrebbe fatto? Un padre che non conosce il nome del figlio. Era cosa che poteva accadere, certo. Ma non a lui. Così, fermo in quell'ufficio, con i piedi ficcati in un paio di scarponi troppo adoperati, Gioacchino cercò di fare una cosa che non gli era mai riuscita: immaginare. Provò a pensare ad un nome. Uno qualsiasi purché fosse bello. Un nome da uomo. Un nome forte, deciso e facile da ricordare. Si sforzò di pensare a queste cose ma non accadde niente.
"Gioacchino, qual è il nome di tuo figlio?" insistette l'impiegato comunale. 
"Si chiama..."balbettò lui "mio figlio si chiama..." ripeté per prendere tempo mentre una confusione di lettere turbinava nella sua mente. Poi, d'improvviso, un'immagine venne a galla dal buio: era l'insegna della bottega. C'era scritta una parola soltanto, color rosso scuro su di una parete a calce. Quella parola era: FABBRO. Gioacchino, in quell'ufficio comunale, si fece chiaro come il sole a primavera. "Si chiama Fabro" concluse. 
"Come il mestiere?" domandò l'impiegato stranito. 
"Sì" rispose mio padre, "come il mestiere, ma con una b soltanto" anche se di lettere poteva capirne quanto un cacciatore di ortaggi».
(p. 17)

C'era un armadio chiuso sulla destra con accanto un inginocchiatoio e in fondo, proprio a ridosso della parete, la tastiera nera e bianca di un pianoforte. Se ne stava l' ordinata e in silenzio con di fronte un uomo. Gli vedevo le spalle e i piedi, ficcati nel legno dello strumento sopra due grandi pedali di velluto rosso. Sedeva composto con le braccia ripiegate all'altezza dei gomiti. Sopra di lui una grande finestra in vetro e piombo lasciava trasparire il cielo, i boschi e la roccia verticale. Quel tale era intento a leggere uno spartito. Si chinava in avanti come non ci vedesse per niente piazzando il naso a un palmo dalla carta, poi si rimetteva composto con la schiena diritta e sospirava. Sporgeva le mani sui tasti ma subito dopo ritornava alle note scritte. Finalmente, dopo qualche maldestro tentativo, si decise. Mosse i piedi per primi. Uno dopo l'altro. Su e giù, su e giù. Sembrava che lo strumento avesse polmoni propri. In spirava ed espirava a fatica. Pareva antico di mille anni. Misi a fuoco le cime al di là del vetro e, per un attimo, quell'aria mi parve il respiro del bosco. Somigliava al vento quando accarezza i rami. Me ne innamorai. Rimasi imbambolato fino a quando il ragazzo suonò le prime note. Una melodia sacra, simile a quella che si ascolta alla messa, venne a galla timida. Ballava nell'aria. Tremava. Quella musica sola aveva una voce tutta differente da come ero abituato a sentirla la domenica. Usciva dalla stanza e s'arrampicava sulle pareti di pietra e saliva alta fino agli affreschi del soffitto. Non c'era angolo che non ne fosse pervaso ed entrava anche dentro di me. Vibravo con lei. L'ascoltavo con gli occhi, con il naso, con i capelli e con il pensiero. Ciascuna nota era un brivido. Smisi di spiare il musicista e rimasi solamente seduto per terra con lo sguardo perduto tra i dipinti che d'incanto avevano un senso e ballavano immobili quella melodia. Mi parve di ascoltare qualcosa che era scritto da sempre e che mai avrei saputo spiegare. Riconoscevo i suoni uno per uno. Avrei quasi potuto chiamarli per nome. Intuivo i fraseggi, li anticipavo, e li mimavo con lo sguardo. Seduto su quel pavimento freddo, riconobbi la voce della montagna che da sempre mi parlava». 
(p. 59)

Ci incamminammo che il sole doveva ancora sorgere. Non c’era luna ma solo il cielo terso di stelle. A guardare in su vedevo la cima dell’Antelao ormai bianca che si disegnava nel cielo e più sopra solamente il buio. Il freddo si infilava dentro i pantaloni di stoffa leggera e saliva fin allo stomaco e i denti battevano che li sentiva il Zoc. “Hai freddo.” “No.” E non dicemmo altro per tutto il viaggio. Qualche tempo dopo il sole fece capolino dietro il Montanel. Il nero all’orizzonte divenne azzuro, le stelle sfumarono e i primi raggi superarono le cime e inondarono la vallata del Cadore di luce dorata e l’Antelao e Picco di Roda si fecero rosa e bianchi di neve. Io guardavo quel miracolo a cui non mi abituavo mai. In montagna, per quel che succede, c’è la bellezza che ti tiene su. Alla fine il sole si alzò e senii il suo calore sulla schiena e smisi di tremare. Proprio allora entrammo nell’ombra del bosco e il ghiaccio tornò. Percorremmo di buon passo un sentiero che prima ci condusse sopra Valle di Cadore e poi diritto a Cibiana costeggiando le vecchie miniere del ferro. Mentre menavo le gambe veloci dietro al passo svelto del Zoc guardavo queste voragini aprirsi nel muschio e scendere giù nel centro della terra. 
 (p. 65)